David Bidussa

David Bidussa

In occasione del cinquantenario della conferenza tenuta da Charles Snow a Cambridge nel maggio 1959 dal titolo Le due culture e la rivoluzione scientifica, Enrico Bellone è tornato a riflettere su “Repubblica” (1 giugno 2009, p. 31) sulla scissione del sapere e, in particolare sulla tesi di Snow e sulla persistenza – altri direbbero sulla eternità - del blocco mentale intorno al confronto tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Ovvero, per riprendere il discorso di Snow, invitando a riflettere sui due canoni fondamentali del sapere: 1) sul fatto che mentre gli scienziati come tutte le persone acculturate frequentano la letteratura, la musica, l’arte e la filosofia, gli umanisti hanno una conoscenza approssimativa – a voler essere generosi – del sapere scientifico; 2) sul fatto il senso comune qualifica come ignoranza imperdonabile il non conoscere Dante, Beethoven, Michelangelo o Aristotele mentre ritiene un dato tecnico non conoscere, Einstein, Galileo, Lavoisier o Darwin.

Per Snow, nel testo di quella conferenza, umanisti e scienziati vivono in mondi separati, disconoscendosi e disprezzandosi gli uni con gli altri. Ma con questo atteggiamento, che si forma in pieno romanticismo e che viene mantenuto anche nel cuore del ‘900, non fanno che denunciare la propria ignoranza. E la propria irresponsabilità perché, secondo Snow, è proprio a causa di questo spirito di separazione che il fossato tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri, si va progressivamente allargando, rendendo sempre più dipendenti questi da quelli e non favorendo uno sviluppo dei secondi rispetto ai primi. In breve, alludeva al controllo del sapere scientifico come strumento per l’esercizio dell’egemonia.

Si tratta in realtà di una lunga storia che riguarda la nostra vicenda nazionale e non solo il problema del sapere scientifico. Così come una lunga e travagliata storia caratterizza la pubblicazione del volume che unisce il testo di quella conferenza a una seconda avente per tema la stessa questione, ma tenuta nel 1963 e in cui in parte Snow corregge, ma sostanzialmente conferma quanto aveva sostenuto a Cambridge nel 1959. Le due culture, esce nel 1964 in edizione italiana, e lo pubblica Feltrinelli con una appassionata introduzione di Ludovico Geymonat. Viene più volte ristampato (l’ultima edizione è del 1977), ma scompare nei primi anni ’80 per poi riapparire, in un’altra stagione nel 2005 (per Marsilio, a cura di Alessandro Lanni e con tre interventi critici di Giulio Giorello, Giusepe Longo e Piergiorgio Odifreddi.

Quel vuoto di un quarto do secolo è un indicatore di molte questioni. In mezzo c’è un pezzo della storia italiana su cui è importante riflettere perché quella vicenda non dice solo di un passato ma pesa in maniera rilevante sull’intera fisionomia della cultura italiana e sul modo stesso con cui, oggi, la cultura viene vissuta nel nostro paese. E riguarda anche, direttamente, le sfide che attengono lo sviluppo possibile oltre la crisi che stiamo traversando.

Se il profilo della prima conferenza è l’invito a superare la divisione, quello della seconda contiene un’accusa esplicita rivolta all’inadeguatezza di chi ha la responsabilità di decidere. “La rivoluzione scientifica – scrive Snow - è il solo metodo in virtù del quale la maggior parte degli uomini può raggiungere cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli), quelle cose di primaria importanza che noi consideriamo ovvie e naturali, ma che in realtà abbiamo conquistato attraverso la nostra rivoluzione scientifica da tempo non poi così immemorabile”. Ciò comporta, prosegue Snow, che i politici non riescono a valutare in modo corretto l’immensità del progresso che i paesi ricchi potrebbero, con il loro impegno, portare in aiuto dei paesi più poveri.

E’ radicalmente cambiata la situazione rispetto al 1963? Non mi pare. E tuttavia, se noi volessimo oggi non tanto riprendere in mano quel testo, ma soprattutto porci alcune domande sul senso dello sviluppo possibile che ci chiede di operare scelte e assumere decisioni, scopriremmo di non essere in grado di decidere alcunché. E non lo siamo solo per inadeguatezza della classe politica, ma anche per una sorta di vuoto culturale che segna l’intera opinione pubblica, sia quella che vota per la destra o il centro-destra, sia quella che vota per la sinistra o il centro-sinistra. Questo vuoto culturale si concentra particolarmente intorno a quattro gruppi di questioni, di carattere contemporaneamente specifico e generale.

Prima di affrontarle, è tuttavia necessaria una considerazione di carattere preliminare. Credo che nei confronti della scienza esista un rifiuto del sapere scientifico e una sua riduzione a “tecnica” che è strutturale nella storia della società italiana e che data almeno dall’inizio del ‘900. Credo anche che esista una sovrapposizione di organicismo di destra e di organicismo di sinistra che fa sì che oggi molte parole e concetti siano interscambiabili tra destra e sinistra. A lungo parlare di scienza a sinistra ha voluto dire misurarsi con i ritardi culturali del Paese, con le insufficienze del sistema educativo, formativo e culturale. Con il peso che la cultura dell’antiscienza ha avuto sul percorso culturale italiano almeno dagli inizi del XX secolo. Con la progressiva marginalizzazione della scienza nella storia culturale italiana.

E’ un atteggiamento culturale che si articola essenzialmente intorno a due questioni: da un lato quella che attiene alle scienze sperimentali, al fatto di affrontare e discutere di scienza in merito a una cultura che si misura su dati, su ipotesi di ricerca e di sperimentazione. In breve, in una dimensione che intrattenga con il sapere un rapporto non spiritualistico. Sotto questo profilo, a partire dagli anni ’70, la dimensione della ricerca scientifica sul campo è stata nella sinistra lentamente abbandonata. La scienza diventa “sapere scientifico”. Non se ne parla più in relazione a ciò che fa, ma per il “discorso”, un termine che allude a molte cose, ma che soprattutto indica la definizione di un rapporto con le scienze del tutto a-scientifico. Dall’altra parte, si afferma che il sapere scientifico sia una sorta di codice per iniziati, privo di riscontri e dunque in sé pericoloso, comunque “infido”.

La somma di questi due percorsi fa in modo che discutere di scienza, o di questioni aventi rapporti con la scienza, richieda uno schieramento a-prioristico che chiama in causa l’identità delle persone, e non il sapere delle cose. Il risultato è che oggi, in Italia, una discussione sulle scienze e sul sapere scientifico nello spazio pubblico assomiglia molto alla disputa intorno alla prova ontologica dell’esistenza di Dio. Un approccio per rendere impossibile non solo una discussione che abbia un risultato pratico e misurabile, ma anche che si proponga un innalzamento della consapevolezza scientifica.

Ciò detto credo non sia inutile farsi delle domande non solo tecniche sul nostro sapere (quello nazionale e quello della sinistra), su come si è formato, sulle risposte che è in grado di dare e su quelle che non può dare. Si tratta delle quattro questioni insieme specifiche e generali a cui accennavo prima.

1

Quali sono i campi di maggior frizione e come sono vissuti a sinistra? Per esempio quanto pesa la tradizione religiosa a sinistra? Qual è a sinistra l’immagine che abbiamo dell’evoluzione? E, più in generale, quale formazione culturale filosofica ha pesato nella formazione culturale generale della sinistra italiana degli ultimi trenta anni? Dopo i francofortesi, dopo Geymonat in Italia chi ha pesato nella cultura diffusa della sinistra? Quanto e come hanno pesato Foucault, Heidegger? Che cosa ha voluto dire il pensiero debole? Che parte riveste la scienza nel sapere post-moderno? (Un ingombro? Un incidente di percorso? Una “provocazione”?)

2

Ci sono questioni e parole a proposito delle quali la sinistra ha un’immagine antropizzata e nei confronti delle quali rifiuta a-priori un’analisi non legata all’antropologia. Per esempio: quando parliamo di ambiente (parola che nasconde spesso un gergo organicistico) che cosa intendiamo? Quando parliamo di tendenze e di preferenze sessuali che cosa intendiamo? Quando parliamo di produzione industriale nel settore dell’agro-alimentare in che modo ne parliamo?

3

Come si discute del nucleare? O meglio: quando si discute del nucleare, di che si discute? La questione nucleare in Italia non è conseguente a Chernobyl. Risale agli anni ’60, allo scandalo e al processo a Felice Ippolito. Ma noi del caso Ippolito e del mancato sviluppo italiano degli ultimi 40 anni ne abbiamo discusso con cognizione di causa, oppure no? In che modo abbiamo discusso della costruzione di siti e di una cultura dell’impatto che non c’è? Parlare del nucleare non comporta forse una stretta relazione con la storia della paura? E allora perché non parlarne esplicitamente? Oppure perché non parlare di una scelta energetica che punta su un sistema di scambio con altre economie nazionali? E con quali? Con quali idee di politica internazionale?

4

Infine, quando parliamo di cultura scientifica in realtà parliamo di scuola. Al centro sta certamente la questione della riforma scolastica, quarant'anni di abbozzi di riforme non hanno prodotto una maggiore conoscenza, al contrario, hanno spesso determinato una crescente marginalità della scienza.

Non è solo una questione di quante ore si dedicano alla fisica, o alla biologia, o all’informatica. La questione riguarda soprattutto se il modello culturale su cui si costruisce il sapere scolastico italiano medio sia o no in grado di affrontare le questioni della scienza. Informatizzare il sistema scolastico certo non sarebbe senza significato, e tuttavia il problema centrale è quello di definire che cosa venga ritenuto “sapere”. Una cultura che non si oppone alla scienza, significa acquisire una mentalità in cui pensare significa dubitare, in cui lo scetticismo è culturalmente superiore alla cultura dell’a-priori, dove in breve la linea Bacone-Spinoza-Shaftesburuy-Hume-Berkley-Ferguson-Smith ha una possibilità di essere considerata sapere e non una mera curiosità. Dove lo sperimentalismo abbia tanti spazi quanti l’idealismo e dove il dubbio e il sapere sperimentale abbiano la stessa considerazione dell’“idea” della fede. Dove discutere di religione non sia discutere di teologia, ma di sociologia della religione, inserendo infine Max Weber tra le cose da sapere quando si parla di religione e modernità. Dove il paradigma che fonda il sapere scientifico è acquisito come dignità di sapere umanistico e dove Darwin cessi di essere visto come un signore stravagante.

Parafrasando Croce, il problema che i moderni hanno davanti non è perché non possiamo non dirci cristiani, ma perché i moderni non possono non dirsi scozzesi. Ne vogliano parlare o continuiamo a fare spallucce?

L'Altro
11 giugno 2009