Rosaria Lo Russo

ROSARIA LORUSSO

C'è da morir dal ridere a pensarci!
Si suppone che il metro e l'imago
tramite cui, lettor, t'accerchio e tramo,
stringi stringi derivino entrambi da Saffo.

Si subodora che la sublime imago,
casta fragmenta di letitia subreta
nell'agonico nostro melode sanremo,
fosse invenzione di Saffo di Lesbo!

Proprio la vista chiara et dolce et fresca
che coglie i fiori ridente e se ne frega,
mentre si dà di cipria e intreccia ghirlande:

lustro d'affetto si commuove il glande.
Sorrido smorfiosa rendendomi conto:
nacque così di certo il gusto della sega.

Questo per quanto lo riguarda,
ma che riguardi anche noi altre
non ci credo nemmeno morta.
L'invidia ha sbarrato la porta.

Se non ci si fosse messo di mezzo
il tormentone dell'amor cortese
forse saremmo salve da un pezzo.

Polpe colpevoli di tornire grazie
forse non subirebbero più offese.

Il gobbo del malaugurio aveva torto:
lei era proprio bella.
Guarda la kylix attica su sfondo bianco,
guarda come sorride,
padrona dei suoi mezzi,
raccolta e sicura, ricurva e intenta.

Dopamina, dopamina partenìa!

Un modus vivendi amètor in esilio
dalle bimbe che fummo
smagate e malmenate.

Dopamina, dopamina partenìa!

Un telefono azzurro per chiamarci nate:
insegnava a prepararsi la pietanza
da sé convinte alla buona creanza.

Dopamina, dopamina partenìa!

Di lei ricordo l'odore acre e melenso.
Le teneva arrovellate nel cavo di una mano
a maturare. Impazzo se ci penso.

Gongola Gongula sculettando mentre la invischia
la lingua di sua dotta mammola brontola.
Scrivevano e godevano sui prati stravaccate,
ella propriocettiva non temendo doppi si mischia.

Impara l'arte e mettila da parte,
Gaspara magna, Isabella, Bella d'Asia,
capestro ghirlandetta al collo di Rosaria,
morte di consunzione, di astenia o di parto.

Godevano e scrivevano toccandosi le tette:
la tremarella alle ginocchia prima dell'esame,
mi ricorda noi ragazze del Settantasette,
Fiori rosa fiori di pesco in coro cantavamo,


e fumavamo di nascosto nel bagno.
Marta mia addio, sottovoce, cantavamo
Non è Francesca, cantavamo sommesse.
Volevamo tutte diventare poetesse.

A braccetto sui lungarni
come beatrici prefiche,

portavamo le polacchine
e levavamo ambo le fiche.

Il fatto è che della sublimazione,
allora come allora e forse sempre,
Saffo cantando se ne faceva un baffo:

e per ogni epitalamio scritto ad un’amica
si sbafava contenta fra i fiori e le ortiche
glucupikra priapa paprika fica.

***

Trittico testacaudato detto de Lo Dittatore Amore

I

Primavera – Pian de’ Giullari

In alcuni paradisi è permesso
accondiscendere ai piaceri vili
come godere di un fregio finto li-
berty, come una pergoletta ch’io vidi.

Ma non stopparmi, anima toscana,
al rigor viso della tua luna diurna;
non disarmare il canto pietrificando
piagenza, né mira al cielo dell’altra

metà del cielo che ti chiude le porte
del regno: venuta meno al pegno che
le schiuse. Abusa pure di me mia

lingua di velcro che raspa felina
il fondàco dove mi salvo catastando
bisogni in paradisi permissivi.

II

Responsi

a F.

A suon di ah! di uh! di squilli ferventi di lanci di slanci di squilli
per vani conati intermittenti, di falsi destini destinatari e mittenti
à la manière di padri e figli madri e figlie minori e maggiori
minorate o maggiorate: tutte comunque perdenti nella durata fatìca dei mutamenti,
mi consiglia di darti un morso che spezzi
la concitata viltà che mi condanna alla chiesta,
perché risplenda alfine la doppia chiarezza
        (limitando decisamente i danni, - sentenzia -)

del foco che mi affina onde rifulgo chiara e lucro fra le genti,
del foco che disprezza tutti questi vani impulsi veniali d'incertezza (in lanci o slanci
di squilli tinnanti in ah! e uh! a nulla propizi):
si smorza l'ambigua flebile fiamma mendace di rimorso e tenerezza.
Ed io risalgo alla ragione prima in me di tua assenza (di caramello in cruna di cunno),
di assenza insomma in te di te di un'interezza, ergo d'interenezza.
Stretto stretto è il vicolo buco di salvezza; t'incontro al buio, inoltro
malintesa carezza, ruga d'espressione, sordido di pienezza commosso
sgorga spurgando tiepido, se contempli se contempli, tiepido
un mare ottuso di sangue, un rombo muto ma verace di stizza che intrinseco
s'estrinseca e guizza: dell'addore d'un fiotto impepato di cozza
si rimpinzò verace adorazione.

La fiamma di nuovo secante ti depone fra le mani il pomo della discordia:
non è propizio perseverare delimitando un possesso tanto grande.
Allora risalto figura nobile fra intrepidi bovi che si spremono a freddo
(la mia carrozza strappata all'indietro - sciagura! -: il tremendo
tremante rinculo ma di nulla mi curo che non ti sia prezioso e propizio)
con lingua e capelli mozzati e naso e orecchie mozze vado monca
al cospetto del saggio che giudice ricuce espettorando le nozze:
Ritìrati prima di cadere in disonore, rintuzza ignobili voglie,
vedi che ricetta d'elemosina non trattiene il viandante!
La fretta muta di cani che ti scortica la pelle e ti fa a brani
sovvertirà gli ordinamenti celestiali del creare in tutte balle e
nella generazione che ricetta ti annienta soffolcendo
muda di siero in dolca di ricotta calda, soffocherà il tuo cuore
con fummo giallo pungente, il lezzo d'orina del niente che mente,

***

soffocherà gli esuli indizi di altri tramonti, gli esili schiocchi
di pollice e indice uniti per sempre (tra morti, s'intende,
blandi intrecci di dita raggelate da danni a terzi a quarti, blandizie tumulate
in quarti di vitella da latte),
soffocherà tumulti fra denti ridenti in nota di cuor di cicogna:
e quest'ennesima inutile rampogna soffocherà sospesa fra le braccia vizze
di una svaccata di salute che a generare ti sospende per le spicce, galoppando forte,
e scaloppa. In quel porcavacca soffocherai beato di rinuncia.

Rinuncio anch'io per te, se lo vuoi, ma dimmi, chiedo:
una volta tanto anche tu rinuncerai ad avermi scolta, mea culpa?
Rinuncerai a me scoliotica scoliasta, matrice di non sai se scòlii o scoli,
pedofila inveterata, castratura pederasta, casta Giocasta?
Nella beata rinuncia a te per la ricettatrice che ti ricatta e t'arresta,
chi perde chi chi prende che a chi va chi dà accoglienza, appartenenza?

Ma a me, ma a me cosa cazzo mi resta?

Irrigidisci, ti prego, l'osso sacro.
E spegni quella luce
che mi ottenebra la vista.

III

Chiusi

Drappeggiata e acefala incombe
bianca l'arcana pietra come nera l'arcigna
sagoma d'Amiata ammutolisce di torba
le nubi che d’intorno l'ostacolano.
Annotta sull'amata il sarcofago manto
che stende pietoso un indefesso: allotta?
che allampa nella lotta continua che ci divide:
testa e busto, testo e contesto
trapunta di stelle versus pezzato di mucca.
Allotta? balbetto. Allotta? chiesi e chiedo,
balba e mesta, Aracne e Atena.

(Diramano sottopelle come urticanti sfoghi d'acne
le lacrime dell'amata piantonate nel petto.
Picchiettano in me tosche come schegge d'amianto).

Liscio come cefalo il canopo etrusco
s'imbottisce di visceri neri come l'asprigna
susina di Montepulciano che stucca s'appiccica
in viva pietra fetida o pacata in morto bùcchero,
nero l'Amiata urna incenerito soverchia
la strapotente rocca di Ghino di Tacco
o quel che fu ricetto all'invitto eresiarca di Arcidosso:
così l'anima pesa sul corpo come un coperchio.
Mute nubi trascorrono sorvolando ignare
il manto che su di me stende pietoso Morte,
l'unico mio figlio maschio.

- Rosaria Lo Russo, nata nel 1964 a Firenze, dove vive, è: poetessa; traduttrice; saggista; lettrice-performer; attrice; insegnante di lettura di poesia da alta voce. Con Melologhi ha vinto nel 2001 la prima edizione del Premio Antonio Delfini. Ha tradotto e curato Poesie a Dio di Anne Sexton, in uscita per Le Lettere in autunno.